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L’ambizione […] caparbia di unire poesia, frammenti e aforismi al canovaccio delle parti, esige che cresca, accostata, una raccolta di poesia di cui già esiste una traccia significativa.

È l’annoso progetto di 100 brani senza titolo accorpati in tre sezioni temporali (identificabili nel n° 1-3-5 di p. 9 [del Taccuino, N.d.C.]).

  • Dire ora ciò che è stato molto tempo fa.
  • Amare con l’intensità dei primi frammenti
  • Trovare le aperture verso una geometria umana.
  • Non smentire la nostra natura terricola e individualista.

Frammento del Taccuino (p. 10)

I.

ultimi giorni temperati

un preludio di voli radenti:

ci sto

nel ricettacolo

dei presentimenti d’estate.

Frammenti librano

qui ora

e già mancati

lievita

un vuoto toccabile

perlaceo

di sole a macchie

di triangoli arancione.

Il ricordo è tensione

l’albero grosso

aperto alla radice

incrudì per schianto,

un fremito

e invola la sera

eloquenze di vita

morte

nella livida stagione.

Sul greto d’angeli avvizziti

fioriscono

i solchi e le crisalidi

micelio trasparente

d’assottigliate parvenze

( Camillo

sei

un fossile bruno

d’avambraccio

NUMERO 2018

verde rame impallidito )

rimpianti leggendari

gloriosi tratti familiari

sulle aride punte delle quattro,

diagramma

di bestie e di silenzio.

II. Paleolitico

Astrazioni di nuvole

e cavalli arcuati

sono miti della pioggia

gonfiore di solchi

nera pianta,

filano l’enigma dei cancelli

amanti nel sonno

accostano e frugano

la loro fecondità.

Il sapore

di un cibo dimenticato

mi sfiora

messaggero consunto

nelle carni attaccaticce,

la ficaia apre la notte

verdori di latte.

III.

È una vergine America

dura a morire

d’assembramenti

l’ostinazione

che prova ogni giorno

la terra alla pantofola:

rompi scarifica

e lava dalla polvere

qualcosa finalmente,

fatica d’ossa

esasperazione.

Ti coglie

il soliloquio di generazioni

l’occhio della pernice

che frolla

così apertamente diseccato

al fosso tondo,

una foglia cade

ubriaca di noia

e scava

nel fagotto delle timidezze.

Ho come un fastidio

non curato,

nelle occhiaie

volontà inutili

che di tempo in tempo

arrossiscono,

fame di cosce

atavica inedia di contadino

e gioco sopra lo sterno

asmatico groviglio

delle impotenze

così anche la notte

il sonno è differente

vecchio che urli

le poche volte

che si parla

e mediti

un pianto asciutto,

ma gusto d’accoglimento

aria che bulina

la mia testa viva

e spenta di fiacchezza

dopo la rappresentazione,

al SOLE NERO

materne lucertole

suppurano occhi lustri

saliva del grugno

piano intensa.

IV. I

Giri di rondini

giri di corvi

franose scaglie d’evidenza

invogliano il palato

la voce fatta da noi

che areniamo

sulla scorza del giorno.

Rosse imbastite croci di ali

come riflessioni

in arco di pupilla,

l’argine a spirale

insegue il tempo,

Sinfonia in Gemini

Amore, ginocchia

fragili sbucciate

sul cemento del reparto,

la bocca fiaccata

convenienza

d’ungere il passo

con lo sputo limpido

della notte.

La mimica dei gatti

sbadiglia evanescente

dove scruti

evasioni grinzose

per fuggirle

ad ogni canto,

più grande la voglia

l’ombra impoverita,

la vita ingorda

di ostinazione e recisa,

penso la notte

sottoposta alla pena

e il sibilante sbadiglio

che elude la terra:

come un sonno pulsano

le stoppie sui cigli,

saremo nudi o svelti

dopo l’inverno.

IV. II

Sublima un riverbero

paleolitico

Esperienza piega sul ventre

una pelle

di tremiti sporchi,

disfa la rena

un friare quieto

intriso di limbo

V.

Schiuma munta

dove l’acqua

è un verde urlo

cristallizzato

il mio rimorso

fragore

dopo il vizio

la mia noia

di languore

scontento.

VI.

Caldo vento di silice

un’inquieta presenza erodi

briciole di tempo

permanenti

nell’ozio gremito

e percosse dal ricordo

senza bocca né occhi

allevato nel sereno liquore.

La nenia delle foglie sale

su per le crepe

delle vecchie mura,

ogni piega d’ombra è un nido

di mattoni sfioriti.

VII.

Afa

notte opaca

gerani e cortili

polverizzati

pensieri dell’ubriachezza

di vino

e frasi singhiozzate appena

per vergogna*,

femmina che ubriachi

di mani raccolte

l’antro curva

frascheggiando

la sua approvazione,

odora di sottobosco

il vino frana

in catinelle

con l’urlo del pavone

immenso

come i pensieri di questa notte.

Non hai colpa

più di quanta ne possa

io stesso racimolare

nell’occhio vetrino

di uno specchio,

la mano sul ventre

il dispiacere nutrito

in cima alla memoria,

muto umidore

che bagna di sano

il mio fastidio,

nell’humus sono labbra

eterni aghi di pino.

Attento ad ogni sorta

di possibili combinazioni

sopra le tendine,

idoli cozzano

in facile proseguimento,

nel fiato degli elfi

la mente macera

lemuri e larve

della pia coscienza.

 

 

* Una scritta a mano riporta in calce:

 

ti ubriachi di vino

mi ubriacai di frasi

singhiozzate appena

per vergogna (N.d.R.)

IX.

Fase primaria dell’uragano

stare nudo

coi gomiti in su

nel fischio innaturale

del ventaccio,

muso di vecchio, sentori

di raffiche annusate

in cima al campo

nel gusto

del marciapiede acerbo

per ulivo scheggiante:

la polvere uccisa

di odore asprigno.

X.

Tessuti nel mattino

eravamo

con le nostre voci

tra casa e minuzie

della festa comandata,

pura risonanza

delle massicciate,

cavalcate d’incenso

nella furia di primavera,

nella piazza

ogni ruga

fu subito sciolta

e cinta

di fresche primizie.

XI.

Nuvole rosa

nuvole gialle

afflato nella smania

l’urlo sale

abbarbicato

e solidifica

come a sera

concitate fantasie

il dio assopito

nell’ottusa immortalità.

Spigolo immenso!

Primo consumo

del cuneo infisso

rivoltarsi del pensiero

indesiderato

e golosa aspettativa:

Terra Siepe Fosso

prima spina

avara suggente

carne di schiavo,

odore calda parete

rosa antico, eco

infinitamente

tenue albore di flauto.

Nuvole rosa

nuvole gialle

nel grigio ardesia

sovente una verga di colore

tenera

partoriente

umili stimmate

verginali

nell’impossibile

odio – stupore:

nuova genesi

di vicoli

e di cancrena assurda.

Nuvole rosa

nuvole gialle

nell’arco dei titani

frombolieri,

strascichi azzurri

sulle brume

ultime chiocciole

senza brividi,

che strano diluvio,

eco di passeri

scrosci d’ali e vento

nell’annuale attesa.

XII.

La vicinale sfrigola a marzo

il capanno sbriciola

fango e sassi

nuove zone bianche premono

sulle pertiche misurate,

l’ansa del giorno

profondo

nidifica

voglie di sterminio.

L’involucro ha colori mai visti,

dove l’erba mummifica

il guardiacaccia

pianta crisantemi

nell’occhio disciolta

un’acqua di veleno,

zittiscono i pensieri

ciechi arroccati

ed hanno di che farti presago.

Cugine che ho scorte

pregne di sviluppo

attorte

vigilia di seni stupefatti,

neutra terra

ventilata di calce,

piove un polline

che non feconda,

lo scoglio della mente

spegne

la tua sopravvivenza.

Sotto un volo di sposa

si resiste adagiati

in quest’aria di partenza,

sappiamo tra cena e pianura

la felce traforata

di battiti. Spigolo,

finestra e fuga

landa di beata intuizione,

ma è come

al festival

del nuovo sacerdozio

improvvidi raggiunti

con premiato sorriso

BIANCO ONIRICO NEOFITA

oro indispensabile

basta un tocco

forte, efficiente, snello

e se natale è vicino

occorre pensarci a tempo

con ……… rovina

fra le mani

l’obliqua dentiera,

dallo scoglio dei coppi

elezione

in passeggiata d’ore

e sostanziata

fresca traccia

di polloni primaverili,

nel vecchio stabilimento

la vuota bocca

di rovi arabescati

e verbo, peccato

canto di via

filato dai tetti

e breve assorto.

Gocciola una sfida

avanza uno scandaglio

in policromi graffiti

la terra nomina

note di rugiada

in sensitivo sguardo

d’animali vegetali

per sudore altissimi

filari mutanti:

ascende al bivacco

l’animale incerto e sudaticcio

nell’equilibrio

di passeri e falene,

populus nigra,

versatile.

Il mattino.

Annosa fanciulla

con voglia di disfarsi

rotolare giallo, intriso

di gradita espiazione.

Mattino

mattino lo stillicidio del mattino.

XIII.

Le ombre indugiano

calcinate di freschezza;

tutte le cose

hanno un poco di luce

rifranta …

Sera ventosa

penetrata di grondaie!

 

 

 

 

Passi nudi

sul calcagno acuto

pianta calda ventosa

per beole rotte

e tondi quarziti

che risciacqui

seduto …

Uno schiocco le imbeve

di antichi sopori

e il sole ci discorre.

 

 

 

 

Un ditisco tuffando

scava nel limo

la luce sopita si muove

di un brivido

d’elitra

nel seno quieta

e discolora.

CIMITERO D'AUTO

Dal dosso accartocciato

calano i bambini seviziando

le tane di periferia

tap tap, toc toc toc perpetrando

l’innocente strage

i bambini sono bambini

unico germoglio schioccato sul fondo

e sbavare di chiocciole

mansueto plasma raccolto.

E nel silente oscuro l’epitaffio

dei parabrezza snocciolati,

rottami di gocciole sonore

acuta uggiosa grinta

come il selvatico potata

come il selvatico

con furiosa maestria.

Nel sangue lavato

è tranquillità liquefatta

da una carcassa fresca di giornata

lavato pietosamente assimilato

nell’acquetta della notte,

pioggerella più propizia

rimbalzata scampoli di proverbi

sul viale lanugginoso.

EVA DELLA SPUMETTA

L’urlo la parabola le anatre del canneto

è partorita in cielo un’aureola

in folle corsa divorato

l’ultimo lembo di sottobosco:

femmina acerbina annusa

il tempo rinverdito

sopra una crosta di vernice

un ferroso muschio zampilla

unica insegna bruniccia

la fusoliera

arabesco inquieto di sollecitazioni.

La ragazza dice

il relitto è mondo

da qualsiasi paura e lancia

la testa pilota nel nuovo più schietto

greto facile tocco

per un diluvio di pietra

maternità dei sassi

accovacciati

attesa di bagnante

paga emarginata

dalla dinamica del mezzo.

 

Eva della spumetta ama nuotare

nel prologo della sera

 

Tra giugno e settembre

nel prologo della sera

 

La valle sale

rimorchia fantasmi di cavalli

attraccati a riva specchio rosa e verde,

è vuota di membra la spiaggetta

dai nidi di bottiglie.

Marco e la sua banda

tesseranno un delicato lavoro notturno

e Lisa Armida e Gabriella

non hanno comunione

col discreto

incubo ronzante.

 

Siamo api in musicale senso

d’orientamento. Pazienteranno corimbi

e infiorescenze.

 

Pazientano

ciondolando

MADRE DELLE PRIME LUCI

Madre delle prime luci

fiore di pelle tirata

nella notte

stipata impietosa,

ma sai (ironica sempre

in fondo compiaciuta)

è una scorza selvaggia

e nonostante tutto

c’è forza e c’è gioia

per sostenere l’azzurro

tocco discreto

cesellato

d’antico fioretto,

con le vespe

il fiuto per l’ottimo

fango della nostra valle

dai rondoni manipolato,

e un esercito fa

schizzi e torte di petali.

Senza titolo 1

Ruàn, vecchio cavallo

la febbre del giorno

i sudori nel fiato del crepuscolo,

esplode lo starnuto

sentori di verbi

nari salate

occhi asciutti

per cose vive e rimorte,

spremi un tafano

succhiandone il miele

in questo abbaglio

che svapora

allucinato

nell’afa di pochi pensieri.

Il vecchio fuma

reliquie di maggengo

sputando

scorie rugginose

di cose stantie,

fila

incorporei

avvicinamenti

in superficie celeste:

forme di anni

oscillanti su una palpebra,

piane ocra verdi e gialle

annegate nei giorni

abbacinati

rimpiccioliti

che sanno

l’equa ostinazione

e l’umile crosta rifiorita

di gennaio:

tante briciole di mani

alzano un volo

di fluido colore.

Senza titolo 2

In corale meditazione,

la draga laggiù è un ghigno di ragno

dai pigri cavi

fruttifica

grappoli colorati di minuti funamboli.

Eva della spumetta

dai seni a galla

in finzione di mute

avide di bonaccia.

Senza titolo 3

Laggiù

bici rosse

tentennano

di note allegre

l’uomo del latte

e una giostra

di biciclette

e uno sferragliare di bottiglie.

Senza titolo 4

Brunire di sete … l’ora senza miasmi

Di qua e di là … questa nebbia antica

Frana l’ala

Nel moto uniforme

Della lontananza

Le rane trasudano…

E bevono la luce.

Senza titolo 5

Così se ogni vero dio

è come l’alba

dai sogni veritieri

prodigo d’intuizione

di scintillante intuizione…

e cos’altro può

se non questo penetrato furore

dare un senso

in un mare di sciocchezze

tracciare in mente

segni smarriti, godere

di un piccolo poema

come «NUOVA ESPLOSIONE»

due parole nate d’acchito

partorite dalle labbra

di cento piaghe

o da una resa

incondizionata

o forse

venute dalle stelle

nutrite da invisibile procedere

di cantilena siderale:

«… nell’atomo sciolto

nel tempo generale

nella luce nera

nel grande atto

tu sole forte

tu terra generosa

tu atomo seme

tu atomo umile…»

Ho simulato la notte

strappato all’assurdo

il puro sole di un cero

vomitato dalle crepe

quanto fango, Cristo,

dell’inverno che tarda

sui corpi masturbati:

ciglia folte viola

seni sintetico turgore

utero gemma mostruosa

del frutto divorato,

ecco la celebrazione

per un velo di primavera

uomo di mille destrezze.

 

E Dio fece uomo e donna

di dolcezza misurata.

 

 

So, con chiara certezza

sanno le mani dissacrate

e il mio vestito

vecchio di sei anni

da indossare per qualsivoglia

nuova premessa:

né ombra né odori

nessun segno (o allarme?)

araldo

di Donna Primavera.

I tuoi idoli

stillano intelligenza

e premono

l’oro dei piedestalli.

 

 

Sto come un cespuglio trafitto

come un colore diviso

di cui rimanga traccia

del primitivo tepore.

Ecco, padre, l’empifondo,

flusso che culla

come un malessere:

così mi cattura, o mi lancio,

e sono

sempre

strumento aperto

posato fluttuante

alla sponda

dove le cose

passano

con lentezza esasperata,

e gli occhi tabernacolo

ad ogni cruda luce

pronti a morirne,

e la bocca urlo,

e le narici respiro,

ombra dei giardini.

 

 

Ho paura, ed è così

perfettamente naturale

e mi lancio

in un grembo di idoli

premeditato sacrilegio d’ignorarli

di nomi, Dei!

Ogni cosa quaggiù è un nome

ogni uomo e donna

fanciulla o prostituta

è un nome, è il NOME!

Pozzo di miasmi.

Lucidamente

il Nome

Intelligenza invocata

da indicibile fetore,

Paura umetta

annusa la fine:

PREGHIERA

Padre

un colpo di spugna

sul mio nome

sul mio corpo

ucciso

aperto guscio

coppa

di atomi vili

AMEN