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Mario Carnaghi | Uomo e artista

Io non ho avuto la possibilità di conoscerlo e di conseguenza non posso raccontare cose vissute in prima persona ma solo per averle sentite da altri o comunque raccontate da Pierangela, anche se la mia sensazione mi dice che lei del marito non è riuscita a comprendere molto. D’altra parte non è certo facile capire un personaggio così complesso, con una sensibilità vicina al parossismo.

 

Giovanni, da quanto riesco a comprendere, non è riuscito a disgiungere il suo essere artista dalla quotidianità che certamente lui considerava banale, quindi non è difficile immaginare che lui abbia costruito una sorta di barriera tra sé e il mondo circostante.

 

Forse per ciò è da considerare un artista vero, in quanto il destino dell’artista è quello di vivere insieme alla su arte, facendo in modo che la propria vita sia parallela a quella della gente comune.

 

È leggendo i suoi appunti che si scopre che per lui il vivere senza passioni non era sopportabile, il vivere lasciandosi trascinare dalla quotidianità offendeva il suo bisogno di colmare quei vuoti interiori che la vita scava dentro la coscienza di ogni uomo.

 

Ancora, leggendo i suoi appunti, si scopre che dentro di lui il senso del dramma era costante e leggesse nel suo futuro la tragedia imminente. Giovanni, con la sua sconfinata sensibilità, non poteva non essere artista, egli doveva trovare il modo per lasciare di sé una traccia indelebile.

 

Il filosofo Kant esortava l’artista a fare arte e fare arte per lui significava che ogni artista deve, attraverso la sua genialità, migliorare non soltanto sé stesso ma il genere umano. È facile e difficile allo stesso tempo leggere ciò che ci ha lasciato Giovanni: è facile perché le sue opere sono polisemiche, ovvero l’ingenuità di un bambino può cogliere tutto quello che in esse è, non superficiale, ma volatile, impalpabile e carezzevole; l’adulto e il cervello raffinato sanno scoprire mondi sconfinati e nascosti negli abissi dell’inconoscibile.

 

Io ho diviso in modo netto l’opera di Giovanni: il disegno e la pittura da una parte e la scultura dall’altra.

 

La formazione di Giovanni è tecnica, diplomato geometra, eppure riesce a distaccarsi dal razionale per entrare nella dimensione creativa e fantastica dell’arte.

 

Il disegno.

 

Il disegno mostra certamente la parte più intima di questo artista, la parte forse più drammatica. Col disegno scava la materia nel piano del foglio, scava in modo nervoso, come se lavorasse con due mani: con una scava e taglia, con l’altra ricuce col tratto del chirurgo che cura le ferite. Angelo e demone.

 

Angelo, perché è il disegno a disvelare l’artista che travalica i confini del conoscibile, demone, perché è lo stesso disegno che mette a nudo la dimensione della sofferenza e della solitudine umana.

 

Nella mente di Sartre l’uomo si rattrappisce come per sottrarsi al suo tragico destino fatto solo di solitudine, il disegno di Gianni è tale e quale, è la cartina di tornasole del percorso che l’uomo segue per mostrare come l’uomo arranca e si scontra con tutti i perché del vivere le vicende quotidiane. Quelle vicende che mostrano a Giovanni tutto il male di vivere e che egli combatte col genio e con il gesto della rivelazione.

 

La matita, come un bisturi traccia segni che entrano, come se il piano bidimensionale del foglio assumesse dimensioni a noi sconosciute e che esistono soltanto nella categoria delle cose fantastiche. Traccia con infiniti tratti e graffi, talvolta vorrebbe nascondere ma invece rivela, rivela i segni di una coscienza sconvolta, rivela il bisogno sconfinato di trovare quella identità che non ha mai trovato e che ha segnato il suo dramma.

 

Mi piacerebbe parlare ora della scultura di Giovanni in modo più leggero e distaccato, sì perché la sua scultura più che svelare il dramma accarezza il sogno della forma che diventa vita.

 

Brunelleschi scultore e architetto ci ha detto che la forma vive, vive in un mondo parallelo al nostro: come diceva Platone nel mondo delle idee.

 

Noi comuni mortali possiamo entrare in questa dimensione con lo sforzo dell’intelletto che ci guida e che ci spinge verso la conoscenza.

 

Infatti, se lasciamo libera la nostra mente di vagare tra le forme inventate dal grande maestro, ci rendiamo conto di come lui abbia saputo, operando sulla materia con la sapienza dell’arte, piegare lo spazio, modellarlo, costringerlo e comprimerlo e in questo modo renderlo disciplinato. Notiamo, in questo modo, che un artista che opera per dare una identità a nuove forme, può percorrere un cammino a ritroso: lasciare che sia lo spazio ad agire sulla materia e non viceversa, guidarlo perché la stessa forma non sia un qualcosa di ostile, ma trovi il suo luogo dove agire, dove vivere il suo destino.

 

Cercare paragoni sarebbe innaturale, ma l’esempio del maestro toscano ci può aiutare a capire come la materia agisce sullo spazio e lo trasforma: basta ricordare la grande cupola fiorentina e immaginarla nel luogo dove è inserita per capire come questo capolavoro dell’ingegno disciplina cielo e terra e tutti i luoghi circostanti creati e vissuti dall’uomo.

 

L’uomo Mascetti si sforza, si impone di essere artista cercando di operare in modo da superare il detto che dice che l’artista deve essere ad ogni costo originale. Quasi sempre l’originalità è una categoria del pensiero che distrae e talvolta induce l’artista a seguire un percorso sbagliato. Le opere di Giovanni vanno osservate come l’entomologo osserva gli insetti e non viste, come di solito si fa, bisogna sforzarsi di scoprirle guardando nell’insieme dell’ambiente che le ospita poiché in esso si camuffano e diventano parte di esso, vivono con esso, respirano la storia del luogo con la dignità dovuta alle cose e al tempo.

 

La sintonia, la musicalità degli oggetti si sposano con l’immobilità del tempo, con la dignità del tempo. Il tempo è immobile ma emette un suono che noi non ascoltiamo mai: questo suono è generato dal contatto, dall’attrito delle cose con il silenzio del tempo. Quell’attrito lo lacera, crea uno squarcio sonoro che accarezza, generando piacere, l’udito di chi riconosce queste melodie.

 

Chi avrà la ventura di leggere queste parole avrà l’impressione di addentrarsi nella filosofia e magari di non ritrovarsi in queste riflessioni, tuttavia è necessario lasciarsi contagiare, accompagnare la nostra coscienza in questo percorso periglioso.

 

Come sono dunque le sculture di Giovanni Mascetti, la risposta è semplice: sono oggetti diventati arte per opera dell’ingegno dell’artista, l’homo faber che diventa homo artifex.

 

Le forme create da Giovanni sono moderne e antiche allo stesso tempo, però hanno una specifica peculiarità: non hanno sottosquadro, quindi sembrano spoglie, non si aggrappano allo spazio, sono continuamente in fieri.

 

Giovanni è un interprete del dettato euclideo che trasforma lo spazio in regola geometrica, lo interpreta superandolo, facendo in modo che lo spazio occupato dalle sue forme conservi la sua verginità, il suo respiro senza tempo.

 

I diversi materiali che lui utilizza, secondo me, non sono fondamentali: sono il mezzo per raggiungere l’obiettivo; sono il fine che giustifica i mezzi.

 

Lo scultore ha le mani dello scalatore che si arrampica sulla parete ripida, con esse assaggia la sua ruvidità, interpreta gli appigli che danno la sicurezza. Così lo scultore affonda le mani nella materia informe e da essa ne ricava la forma desiderata, oppure affronta la dura pietra per liberarla dalle impurità che imprigionano i desideri dell’artista.

 

A questo punto del mio ragionamento dovrei stabilire, secondo i miei criteri, cos’è il bello, data questa definizione, cercare quale tipo di bellezza Giovanni perseguiva con ossessione.

 

I desideri dell’artista, nel credere comune, sono la ricerca del bello, ma è esso stesso a stabilire cosa sia il bello, poiché non esiste una forma assoluta di bello e come si dice comunemente esso è soggettivo e dunque ciò che è bello per uno non lo è per un altro.

 

Comunemente per bello assoluto viene considerato quello classico: esso richiede che le forme siano in modo assoluto proporzionate, in armonia tra di loro e in perfetta simmetria. Ma, sempre nel concetto classico, la bellezza è raggiunta quando le forme sono in perfetto equilibrio durante l’azione o il movimento. Ancora la bellezza è tale e definita quando il bello coincide con una propedeutica morale ed è dunque catartica ed educativa.

 

Naturalmente sto parlando dei concetti fondamentali della bellezza in occidente, perché, basterebbe spostarsi geograficamente di poco e andare nel vicino oriente, per trovare concetti di bellezza che sono fondamentalmente diversi da quelli occidentali.

 

Tutto sommato si potrebbe dire che la bellezza non è altro che un insieme di elementi ben conosciuti ma allo stesso tempo indefinibili singolarmente, una sorta di crasi.

 

Ora cercherei di trovare una soluzione al quesito davanti al quale ci troviamo guardando le opere di Giovanni Mascetti. Due sono le strade che possiamo percorrere: la prima ci afferma che per lui il bello è dato da una sorta di sincretismo; la seconda c’indirizza a riflettere sulle possibilità che per lui la bellezza si nasconde invece nell’eclettismo.

 

Tra le due possibilità Giovanni, inconsapevole, non per scelta, segue il secondo percorso, in quanto per lui la forma perfetta si riassume nella somma di esperienze che si trovano riunite nel concetto di armonia.

 

Ancora sta ragionando sul piano teorico, ma sono certo di poter dire che il concetto di estetica in Giovanni è quel contenuto nel significato stesso della parola estetica. Nel suo percorso artistico l’estetica ha il valore di conoscenza, conoscere per capire, capire i meccanismi che regolano non solo il mondo delle cose ma anche quello delle idee.

 

Per lui il bello è un dio a noi sconosciuto, è un dio che regola le cose non secondo natura ma attraverso un cammino fatto di grandi silenzi e grandi solitudini. Abbiamo già detto che Giovanni viveva dentro la solitudine che ricorda quella sartriana, ma non è la solitudine che tutti noi, più o meno, conosciamo, ma è un mondo sconfinato fatto di presenze angoscianti che questo dio governa e lacera le coscienze di chi questa solitudine vive.

 

Guardando le sue figure vediamo che si aggirano in un mondo dove il tempo è solo un luogo, un mondo dentro il quale si celano tutte le figure che l’uomo ha creato nei millenni. Guardiamole e vedremo che esse non concedono appigli, sono attraversate, come per sortilegio, da quel luogo. I buchi consentono di vedere dentro le cose, le ferite mostrano tutto ciò che è nascosto ai nostri occhi, rivelano un mondo una realtà sconosciuta.

 

Vedere le cose delle quali conosciamo l’esistenza, ma non le abbiamo mai viste, quasi mai ci aiutano a capire e tanto meno ci rendono la vita migliore, anzi la conoscenza ci rende più consapevoli del nostro essere fragili.

 

La scultura di Giovanni può essere amata o ignorata, ma mai disprezzata, non è necessario essere dei teorici dell’estetica per capire che lui era un vero maestro, un artista che camminava, attraverso la sua arte e le sue forme assolute, veloce verso quell’eternità che lui voleva conoscere.

Udire voci trapassate insidia
il giusto, lusinga il troppo debole,
il troppo umano dell’amore. Solo
la parola all’unisono di vivi
e morti, la vivente comunione
di tempo e eternità a recidere
il duro filamento d’elegia.
È arduo. Tutto l’altro è troppo ottuso.

“Passa sotto la nostra casa qualche volta,
volgi un pensiero al tempo ch’eravamo ancora tutti.
Ma non ti soffermare troppo a lungo.”

Mario Luzi

C’è un posto, Giovanni Mascetti, per te, per Pierangela e per i tuoi figli fuori dal tempo, fuori dalla memoria?

C’è una promessa? Che ti dice il tuo Dio? C’è il paradiso?

Grazie Giovanni.

Luigi Cavadini | Giovanni Mascetti: Vivere è creare

…vivere significa allontanare con forza la propria fine: creando”: è questa una delle considerazioni, fra le tante, che compaiono nel “Taccuino” di appunti e di riflessioni che Giovanni Mascetti ha tenuto con serietà ed impegno dal 21 settembre del 1981 fino a pochi giorni prima della morte. E riassume un po’ il suo spirito e il suo intento di uomo e di artista. La vita ha senso perché e in quanto sa essere “creazione”. In questa direzione si è sviluppata la sua ricerca nel tempo.

 

Anche per chi è avvezzo ad affrontare l’arte e gli artisti, il lavoro di Mascetti non lascia spazio a discussioni e a tentennamenti. Ci si rende subito conto di essere di fronte a qualcosa di estremamente serio, di sicuramente importante.

 

Importante per l’artista, ma anche per chi ha avuto, ha o avrà occasione di riceverne stimoli, di rispondere alle sensazioni che prendono il via da quelle superfici, da quelle forme. Mascetti non è il classico artista della domenica, la persona che trova nella pittura e nella scultura solo il luogo e il modo per passare il tempo. Egli si pone in questo mondo dell’arte, così come in quello della poesia, in piena coscienza del loro valore, della loro funzione espressiva, conscio che solo attraverso di esse potrà esternare la “vita” che gli frulla – o, a volte, gli rode – dentro.

 

La sua ricerca in campo artistico (documentata puntualmente nel suo “Taccuino”) si fonda sulla necessità di confronto con la società, con la situazione del mondo, con la condizione dell’uomo. L’uomo che perde la sua identità, che non possiede più ideali, che è folla anonima e senza riferimenti. Valutazioni negative, senza dubbio, da cui però trae gli elementi per una lettura meno pessimistica delle cose, per una “evasione” che però ha l’intento di mantenere l’uomo dentro la realtà e di renderlo produttivo, capace di innescare relazioni e riflessioni.

 

Ecco così maturare l’approccio all’arte, figurata e scritta. Sensazioni forti che si placano su un foglio su cui si stendono materiali diversi, senza attinenze specifiche, che, però, nella giusta posizione divengono vitali e reciprocamente vivificanti.

 

Il tutto si sviluppa in una composizione che già supera la realtà, la narrazione puramente figurativa, per inventare una vita che solo funzionalmente ha bisogno delle forme per essere espressiva. Il bisogno di “muovere” fuori dal concreto per una concretezza originale e nuova tradisce l’esigenza di suggerire più che di rappresentare, di stimolare più che di descrivere.

 

L’informalità, la non-forma, che caratterizza le sue composizioni, nasce da quello che egli chiama “il patrimonio di ancestrali informazioni” che l’uomo si porta dentro e che conducono l’artista a riscoprire e a tradurre in immagini “gli impulsi irrazionali come le intuizioni animalesche e pure” trovando in tutto questo un mondo che non ha confini: “amo e penetro queste frazioni di infinito”.

 

Questa esigenza d’infinito trova nelle opere, siano essi puri e semplici dipinti o assemblaggi di materiali e colori, una rispondenza non superficiale: la complessità di certe composizioni, in cui l’immagine vive di oggetti estranei di cui sfrutta le valenze formali e le possibilità narrative, trova normalmente uno sbocco operativo, vuoi nel gorgo di una spirale, vuoi nel “lancio” che porta oltre la superficie dell’opera, vuoi nella sottile simbologia che avvolge, in modo particolare, le opere plastiche, le sculture.

 

In esse Mascetti vive ancora più profondamente la sua azione di “creatore”: ne inventa le forme, le “veste” di materiali di sua invenzione, le rende eloquenti nei confronti dell’ambiente che le circonda. Così “la materia penetra lo spazio, lo avvolge, lo cuce in trame funamboliche e misteriose”. Una materia che è “familiare all’uomo, che vive di essa, della sua natura e del suo colore. La sua sostanza la lega intimamente alla scultura del proprio tempo e nutre anche l’eterno…”.

 

Concetti semplici e complessi nel medesimo tempo, che posseggono però il senso del lavoro di questo artista, che ha sempre accettato di essere messo in discussione dalle cose e dai fatti e che, una volta acquisite, nella mente e nel cuore, certe consapevolezze ha saputo gestire la propria arte con la serietà di chi si sente capace di essere “creatore” nella convinzione che in ciò che si crea non c’è mai la certezza delle cose, quanto piuttosto l’interrogazione costante della vita, per sé e per gli altri.

 

Sia nelle opere su tela o su carta che nelle sculture, le forme non riposano mai in una staticità (esausta o cercata) che le appaghi, ma risultano, esplicitamente o implicitamente, coinvolte in un movimento costante, suggerito dalle linee o dalle superfici curve che rilanciano continuamente l’azione o da quei segni pittorici che percorrono le superfici in modi apparentemente casuali ma capaci di realizzare sottili equilibri che attribuiscono al singolo “racconto” dei risvolti di non banale poesia.

 

Luigi Cavadini

 

In corsivo nel testo alcune citazioni dal suo Taccuino.

Gianfranco Maffina

Sono sempre stato uno strenuo difensore dei valori della provincia e del proprio patrimonio artistico che viene spesso ingiustamente ignorato dalla grande industria culturale come nel caso particolare di Giovanni Mascetti del quale la natia comunità ne onora il ricordo con una esposizione della sua produzione scultorea, l’ultimo atto di quel lavorio artistico condotto con la pudica riservatezza di un uomo i cui saldi principi morali lo aiutavano nella ricerca costante di una verità che contrastava con il proprio vivere giornaliero.

 

Non ho mai conosciuto questo artista ma dopo una breve visita al suo studio e una lettura del bellissimo diario che documenta i suoi pensieri sull’arte in rapporto alla vita quotidiana, mi son reso conto che non solo la comunità inverunese, ma la cultura stessa ha perso un grande personaggio, nel turbinio del vivere contemporaneo, senza mai accorgersi di quanta ricchezza interiore e intellettuale fosse dotato.

 

Per decenni ho avuto dimestichezza con i fatti dell’arte e dei suoi protagonisti più o meno importanti; ho ripercorso e rivisitato le avventure estetiche del nostro secolo che sta per giungere al suo termine con tutti i suoi “ismi” e le sue dichiarazioni programmatiche che talvolta ebbero una durata effimera, ma non mi sovviene, tranne casi di eccezionale portata storica, nei quali la coerenza teorica coincida perfettamente al risultato pratico e ne abbia mantenuto la sua valenza dialettica nella contemporaneità malgrado il correre veloce del tempo e delle sue mode.

 

In ogni artista si nasconde la progenitura culturale, la matrice generativa che condiziona lo sviluppo e l’evolversi della propria fantasia, ma nella scultura di Giovanni Mascetti non ho trovato paragoni o parametri, anche i più assurdi ed azzardati, ai quali appigliarsi: Picasso, Brancusi, Boccioni, Moore, Marini ed altri.

 

Ma osservando più attentamente queste sculture, mi son reso conto che le sue fonti di ispirazione vanno ricercate piuttosto in pulsioni di carattere ancestrale fuori dal tempo e dallo spazio, in una sorta di metafisicità; una specie di veloce fagocitazione del nostro recente passato per iniziare da quelle primarie matrici ancestrali sulle quali si è basata la costruzione della nostra civiltà: dai primi vagiti gutturali ai suoni modulati degli zeffiri celesti, dai primi graffiti rupestri ai totem dell’era precolombiana.

 

Un veloce percorso a ritroso con la macchina del tempo, un affascinante excursus storico di millenni per un confronto impietoso con la contemporaneità del nostro presente tecnologico e consumistico senza anima.

 

Linee e forme afigurali paragonabili alle moderne sagome progettate da un designer, incastri di materiali primari come ferro, bronzo, legno frammisti agli attuali prodotti vinilici si amalgamano e creano delle strutture robotiche pronte ad agire per l’affermazione di un nuovo ordine sociale imposto da una volontà extraterrena, per la quale noi mortali ci sentiamo esclusi anche se taluni di questi personaggi mantengono i simboli della nostra società consumistica che ci riporta ad una riflessione filosofica e sociologica sull’attuale condizionamento dell’uomo contemporaneo verso i valori più autentici del nostro vivere che non mutano con il trascorrere del tempo.

 

I pensieri scritti nel diario di Giovanni Mascetti rimangono la chiave di lettura di questa sua ultima produzione che la morte improvvisa ha interrotto; un viatico spirituale per comprendere appieno la complessa personalità di questo artista che, nell’indifferenza dei più, ha scavato e sondato la coscienza dell’uomo d’oggi per riportarlo ai valori primordiali della sua esistenza terrena.

 

Considerazioni filosofiche e sociologiche di ampio respiro poetico per i suoi contemporanei di un uomo che nessuno ha voluto ascoltare.

 

Gianfranco Maffina

Varese, agosto 1996

Aldo Spinardi | Giovanni Mascetti: Astrazione in pittura e plasticità in scultura

Giovanni Mascetti, scultore e pittore, alla “Telaccia”, la cui direzione si mostra sempre più attenta nella selezione degli artisti, i cui valori sono visibili e tangibili nelle sale espositive di Piazza Statuto. Tangibilità e plasticità sono le caratteristiche essenziali delle opere di scultura, in resina, legno e altri materiali: la fluidità del linguaggio si arricchisce con sapienti dosaggi di convessità e concavità, ed il ritmo è segnato da cesure, da tagli che sembrano voler frenare l’intensità trascorrente della linfa vitale, quasi sassi sorgenti tra le acque di un ruscello.

 

Alle opere puramente descrittive si accompagnano sculture nelle quali si può leggere un contenuto simbolico, come, ad esempio, allorché Mascetti rappresenta “la folla” che si riunisce per avanzare le proprie richieste, proclamare i propri diritti, ma al tempo stesso sembra invocare uno scudo protettivo da un Essere che sta in alto, o da un’autorità costituita.

 

La pittura, con sovrapposizioni, inserimenti di collages appena percettibili, appartiene, salvo qualche eccezione, all’astratto mentale: ci riferiamo in particolare all’“astratto rosa”, nel quale i bruni, gli ocra, di diverso tono, creano un’atmosfera di attesa, un respiro denso di contenuti. E sempre uno spicchio rosa o rosso, il quale non è soltanto dovuto ad un artificio pittorico, ma vuole essere un segnale di vitalità: nel grigio, nel bruno, nel chiarore del piano, nella sua verticalità od orizzontalità, c’è qualcosa che si muove, che vive, che vuol farsi sentire, affacciarsi alla finestra.

 

Ed allora, l’astrazione mentale è proprio al di fuori della vita concreta? Le “costellazioni urbane”, le “costellazioni dei pesci” sembrano proprio dire di no. Anche Giovanni Mascetti ci lascia un messaggio: non c’è arte senza l’uomo, le sue angosce, le sue passioni.

 

Aldo Spinardi

Torino, 20/1/1990

Tesi

Giovanni Mascetti studia l’uomo e la sua realtà icastica e formale, per mettere a punto, uno stile una tecnica, e persino una materia con le varie leghe del legno, dell’acciaio, della resina, per consolidare una certa dimensione.

 

L’elegante linea stilisticamente personalizzata dalla espressività verticale e dalla contenutistica che primeggia, nelle parti creative dell’insieme, è la più aderente chiarificazione scultorea che Giovanni Mascetti ci può dare. Le sculture sono di un plasticismo sorprendente e ammirevole. Egli ci fa giungere un suo momento lirico, creativo e sublime, dobbiamo dichiarare che Giovanni Mascetti, racchiude i maggiori valori stilistici ed espressionistici della linea scultorea contemporanea.

 

Classico? Figurativista? Nessuna precisa corrente lo vede inserito, egli è libero nelle sue esecuzioni, che riflettono una precisa analisi del soggetto e una lineare proposta, nell’opera da lui modellata. Elegante soprattutto nella essenzialità e nella plasticità del contenuto, fa rivivere momenti poetici, sculture strutturate in un preciso accostamento di termini geometrici, secondo criteri rispondenti ad una assoluta perfezione stilistica. Sono infatti figure quanto mai stilizzate.

 

Definite, quasi sempre, secondo una curva lineare che idealmente, delimita l’intera composizione.

Tesi

Giovanni Mascetti

Il giallo, il verde, le ocre nelle loro infinite pause e accensioni cromatiche fanno la campagna, le sue ore trasparenti e senza miasmi, le sue esplosioni uniformi di lontananza: una forza quieta ed intensa.

 

Chi in essa ha vissuto non si accontenta di un compiacimento impressionistico e leggero e, inevitabilmente è parte di una nebbia paleolitica ed eterna, in fondo a un campo di granoturco, nella luce che filtra in una siepe, nel giuoco sull’acqua di una risaia.

 

Cogliere le sensazioni più che le impressioni, il colore si perde in un movimento astratto a volte troppo materiale e, i pennelli raramente assolvono il loro compito.

Giovanni Mascetti

Nino Colombini | Ricordo di un amico

Quando si ricorda una persona che si è incontrata nella vita sorge spesso il dubbio di non essergli stata abbastanza vicina; c’è qualcosa che ci lascia insoddisfatti, convinti di non avere fatto quanto sarebbe stato possibile con un po’ più di coraggio, pensando forse che c’era tempo, rimandando di anno in anno il momento di spiegarci.

Succede che qualcuno se ne diparta e tutto quello che si doveva intendere è rimasto lì.

Ricordo di Gianni che incontravo per la strada e mi diceva: “vienimi a trovare, ho delle cose da farti vedere”. Queste “cose” le ho viste solo qualche mese fa.

Dipingere o fare scultura è una cosa, ma il vero problema è vivere, cioè sapere perché si dipinge o si scolpisce, per chi, e farlo sapere ben chiaro. Non v’è artista che una volta terminata la sua tela o la sua scultura non si chieda se essa sia valida, altrettanto o più di quella precedente. Nel suo studio l’artista spesso interroga uno specchio e la sua domanda è spesso vana. Ma c’è la prova più efficace e quindi più temibile degli amici, ed è soprattutto in compagnia degli amici che ci si rassicura e ci si rende conto che si è sempre sulla buona strada.

Negli ultimi anni Gianni sentiva la necessità di dedicarsi unicamente al lavoro di pittore e di scultore; non riusciva più, o comunque a grande fatica, a conciliare questa sua vocazione con quella del lavoro di tecnico. La ricerca artistica gli si era ormai compenetrata; soffriva tremendamente questo dualismo ed era ormai sul punto di accettare il rischio di questa sua vocazione.

Il nostro paese dell’artista che ci era stato donato non si accorse.

Questa mostra è un riconoscimento per il suo disinteresse mercantile, per la sua solitudine di artista vero, per degnamente ricordarlo e per risarcirlo dell’indifferenza che ebbe a subire e per ringraziarlo del silenzio e del pudore e della continua offerta di poesia con cui a quella indifferenza seppe rispondere.

Gianni trascorreva nel suo studio alcune delle ore più felici della sua vita. Era lo stupore per il creato e per gli esseri che colpiva la sua fantasia e quel suo cuore sensibile che lo spingeva a disegnare e dipingere, modellare e scolpire.

Se quello stupore non appariva, se ne stava là inerte. Ma la sua era una inerzia d’attesa, affinché il miracolo si ripetesse come se quella volta fosse la prima volta.

L’indagine critica del suo lavoro, iniziato in questa rassegna da Luigi Cavadini, è un primo passo, il primo gradino per una indagine sempre più approfondita alla ricerca della sua personalità. È importante che altri, in futuro, partendo dal presupposto di questo inizio, trovino la necessità di indagare il lavoro di Mascetti per farlo conoscere e proporlo altrove.

È necessario quindi che questa mostra non sia solamente un ricordo per una conclusione definitiva del suo lavoro ma l’inizio per la ricerca del suo valore.

Nino Colombini

Giovanni Paparo

Inveruno (MI) 25 ottobre 1996

 

Non è facile giudicare almeno per me, chi siamo noi per misurare la sua opera; un uomo così introverso, e complesso, così elevato e ascetico. Creatore di segni e pensieri. Poesia cromatica e terza dimensione. Estimatore musicale ed estroso bonsaista. Profondo amante della natura.

 

Tutto ciò che ha dipinto, tutto ciò che ha sentito; è solamente tutto quanto gli era essenziale, per uno sfogo interiore, per poter essere, per poter vivere, per poter celare tutto quanto lo opprimeva.

 

Che dire dunque del suo segno; oimè quanto e difficile dar giudizi! E pensare che son più di trent’anni che mi occupo d’arte. Un fatto è certo, io ho sempre creduto in lui, per quel poco che ho potuto l’ho sempre spronato a esporre, l’ho sempre incoraggiato.

 

Io ho sempre apprezzato l’arte per le sensazioni che mi trasmetteva. Del resto non ho mai giudicato per cataloghi.

 

Frequentemente l’ho visto operare con fervore, spesso si è parlato a lungo assieme sull’arte. Ho visto crescere i suoi lavori, le sue ricerche, le sue sperimentazioni, i suoi travagli esistenziali per l’arte. Certo l’aridità del bisnis *(forse si intende il bigné, in dialetto inverunese) non era il suo pane.

 

E chissà se forse, sempre nel suo io, i suoi pochi acquirenti, ne erano stati i più degni! (per comprensione artistica). Per i più, l’avido possesso in arte, è spesso non scevro da venali influenze. Ma per pochi, è prima di tutto godimento dello spirito, sensazione, trasporto.

 

Tutto ciò che ha creato, è senz’altro degno di grande stima. Le sue capacità d’artista, indiscusse. La fama però? Questa è un’altra cosa. Questa è legata ad innumerevoli fattori; fattori i quali, non era certo il Gianni voglioso e capace di aggraziarseli.

 

Tuttavia, spesso la fama di artisti importanti, viene a galla dopo tanto tempo che sono scomparsi, come dopo un limbo inevitabile. Ed anche qui, ci giocano tantissime coincidenze. Coincidenze culturali, ma anche coincidenze meno nobili. Sembrerà un paradosso, ma non bastano nemmeno un parere di un Leo Castelli o di un Bonito Oliva, una partecipazione alla Biennale di Venezia o all’Espò di Bologna, uno scritto di Arbasino o di Briganti, contano sì, contano, ma non bastano. Quanti che hanno avuto queste grandi opportunità sono andati nel dimenticatoio.

 

Tuttavia io sono convinto che di personaggi come il Gianni Mascetti, non ne esistano tanti. Le loro capacità creative e le loro intuizioni, sono precorritrici dei tempi, anche se siamo già arrivati alla non-arte. E come tali incomprensibili dai contemporanei meno addentro alle cose dell’arte, e si sa che gli uomini tendono ad apprezzare tutto ciò che è più facile, più comprensibile, spesso meno impegnato, o meglio impregnato di cultura.

 

Sulle influenze iconografiche che dire? Se per i suoi primi lavori si può parlare di progeniture, posso anche essere d’accordo, per quanto attiene invece il grosso delle sue opere, sia di pittura che di scultura, la sua forza sta appunto nella neutralità e nella purezza di linee e forme prettamente sue, personalissime, e originali, frutto di continue elaborazioni evoluzionistiche di grande impegno intellettuale.

 

Il tema univoco e penetrante della sua scultura, è essenzialmente l’estrinsecazione dell’uomo contemporaneo. Il suo impatto con la natura, il suo essere nell’ambiente del lavoro, i valori umani inesistenti, le gerarchie; l’arrivismo. La raffigurazione essenziale dell’uomo occidentale, della folla robotizzata, dei suoi idoli, della sua sfera sessuale, della sua poesia visiva.

 

Io sono comunque felice di averlo conosciuto, di averlo frequentato, di essergli stato amico. E sono altresì sicuro che verrà un giorno in cui ciò che lui ha fatto, verrà premiato.

Giovanni Paparo